Santa Chiara,
un messaggio per la Chiesa di oggi
Monastero Clarisse, Paganica 11 Agosto 2012
1. Una fuga nella notte
Un espediente a cui ricorrevano un tempo i giovani innamorati, specie in certe regioni d’Italia, per vincere l’opposizione delle rispettive famiglia al loro matrimonio era quello di un rapimento concordato per mettere i genitori davanti al fatto compiuto. Il ragazzo veniva di notte e rapiva la fidanzata già preparata per farsi rapire. (Oggi, con l’andazzo che corre, non c’è più bisogno di ricorrere a questi mezzi, ma non è certo un progresso!).
Ho detto questo perché da una storia analoga è nato otto secoli fa l’ordine delle monache Clarisse, ma, vedremo, con una sostanziale diversità, dovuta alle persone implicate e al motivo della fuga. Ascoltiamo come nella Vita di Santa Chiara scritta poco dopo la sua canonizzazione viene narrato il fatto:
La notte seguente [la domenica delle Palme], pronta ormai ad obbedire al comando del Santo [Francesco], Chiara attua la desiderata fuga, in degna compagnia. E poiché non ritenne opportuno uscire dalla porta consueta, riuscì a schiudere da sola, con le sue proprie mani, con una forza che a lei stessa parve prodigiosa, una porta secondaria ostruita da mucchi di travi e di pesanti pietre.
Abbandonati, dunque, casa, città e parenti, si affrettò verso Santa Maria della Porziuncola, dove i frati, che vegliavano in preghiera presso il piccolo altare di Dio, accolsero la vergine Chiara con torce accese. Lì subito, rinnegate le sozzure di Babilonia, consegnò al mondo il libello del ripudio; lì, lasciando cadere i suoi capelli per mani dei frati, depose per sempre i variegati ornamenti. […]
Poi, dopo che ebbe preso le insegne della santa penitenza davanti all'altare di santa Maria e, quasi davanti al talamo nuziale della Vergine, l'umile ancella si fu sposata a Cristo, subito san Francesco la condusse alla chiesa di San Paolo, con l'intenzione che rimanesse in quel luogo finché la Volontà dell'Altissimo non disponesse diversamente.
Chi era l’innamorato verso cui volava la giovane Chiara? Francesco? Nella fiction televisiva andata in onda su RAI Uno qualche anno fa e intitolata “Chiara e Francesco”, c’è una scena iniziale che è come la chiave di lettura dell’intera storia. Si vede Francesco che cammina su un prato e Chiara fanciulla che le va dietro gioiosamente, mettendo, quasi per gioco, i suoi piedi sulle impronte lasciate dai piedi di lui. Francesco si volta e le domanda: “Stai seguendo le mie tracce?” e lei risponde: “No, Francesco; altre molto più profonde”. Tutti e due seguivano infatti le orme di Cristo. Spiegherò meglio alla fine perché la storia di Chiara non si spiega con l’amore per l’uomo Francesco.
Allora Chiara era attirata da Madama Povertà? Ci si è ingannati a volte su questo punto, vedendo in seguito Chiara così gelosa di questa prerogativa del suo ordine. No, né lei né Francesco erano innamorati della povertà! La celebre metafora delle nozze tra Francesco e Madonna Povertà che ha lasciato tracce così profonde nella letteratura e nell’arte francescana può risultare deviante. Non ci si innamora di una virtù, ma di una persona.
Le nozze di Francesco sono state, come quelle di altri mistici, uno sposalizio con Cristo. La risposta di Francesco a chi gli chiedeva se intendeva prendere moglie: “Prenderò la sposa più nobile e bella che abbiate mai vista”, viene di solito male interpretata. Dal contesto appare chiaro che la sposa non è la povertà, ma il tesoro nascosto e la perla preziosa, cioè Cristo. “Sposa, commenta il Celano, è la vera religione che egli abbracciò; e il regno dei cieli è il tesoro nascosto che egli cercò”. Il racconto della memorabile notte di Chiara alla Porziuncola termina, abbiamo sentito, con l’affermazione: “l'umile ancella si sposò a Cristo”.
Francesco e Chiara non erano innamorati della povertà in sé, ma del Cristo povero. È stato scritto giustamente: “La povertà francescana non è di ordine principalmente ascetico; non è neppure di ordine apostolico, ma è di natura mistica. Se Francesco è povero, è perché ama Cristo che è povero”.
Abbiamo scoperto così chi era l’innamorato della storia, chi fu l’autore del “rapimento” nel caso di Chiara. Un poema celebre di san Giovanni della Croce descrive la vicenda mistica dell’anima che, attratta dall’amore del suo sposo divino, di notte, cioè nel buio dei sensi e dello spirito, esce di casa, cioè da se stessa, nel sonno di tutte le sue potenze, per andare incontro allo sposo che l’attende. È sorprendente notare come quello che Giovanni della Croce dice in chiave poetica e simbolica si sia realizzato di fatto, anche storicamente e fisicamente, nella vita di Chiara. Dice il poema:
1. In una notte oscura,
con ansie, dal mio amor tutta infiammata,
oh, sorte fortunata!,
uscii, né fui notata,
stando la mia casa addormentata.
2. Al buio e più sicura,
per la segreta scala, travestita,
oh, sorte fortunata!,
al buio e ben celata,
stando la mia casa addormentata.
3. Nella gioiosa notte,
in segreto, senza esser veduta,
senza veder cosa,
né altra luce o guida aveva
fuor quella che in cuor mi riluceva.
4. E questa mi guidava,
più sicura del sole a mezzogiorno,
là dove mi aspettava
chi ben io conosceva,
in un luogo ove nessuno si vedeva.
5. Notte che mi guidasti,
oh, notte più dell’alba compiacente!
Oh, notte che riunisti
l’Amato con l’amata,
e l’amata nell’Amato trasformasti.
Che la passione d’amore per Cristo fosse il grande segreto, la molla di tutto, nella vita di Chiara, come lo era per quella di Francesco, è attestato dagli scritti autentici della Santa, soprattutto dalle sue lettere ad Agnese di Praga, dove, più ancora che nella Regola, lei poteva dare libero sfogo a quello che riempiva la sua anima. Basta ascoltare qualche brano della quarta lettera. Agnese è definita “sposa dell'Agnello Re eterno”,
“ del quale tutte le beate armate dei cieli ammirano incessantemente la bellezza, il cui amore appassionata, la cui contemplazione ristora, la cui benignità sazia; la cui soavità riempie, la cui memoria brilla soavemente, al cui odore i morti rivivranno, la cui visione gloriosa renderà beati tutti i cittadini della celeste Gerusalemme; poiché egli è lo splendore dell'eterna gloria, il candore della luce eterna e lo specchio senza macchia. Questo specchio, guardalo ogni giorno, o regina, sposa di Gesù Cristo, e di continuo scruta attentamente in lui il tuo volto, cosicché interiormente ed esternamente tutta ti adorni, avvolta e cinta di vari colori […]
Contemplando inoltre le indicibili sue delizie, ricchezze e onori perpetui e sospirando per l'eccessivo desiderio e amore del cuore, proclami: “Trascinami dietro a te, corriamo seguendo l'odore dei tuoi unguenti, sposo celeste!” Correrò e non verrò meno, finché tu non m'introduca nella cella del vino, finché la tua sinistra non sia sotto il mio capo e la tua destra non mi abbracci felicemente, e tu mi baci con il più felice bacio della tua bocca […].
Questo è linguaggio di una innamorata e non c’è dubbio che quello che Chiara scrive ad Agnese è ciò che lei stessa viveva e che proponeva come ideale a tutte le sue figlie.
2. Una novella Pentecoste per la vita consacrata
Il modo più bello e più utile di celebrare il centenario della fondazione dell’Ordine delle clarisse è di riprodurre, o almeno sforzarsi di riprodurre, questo slancio d’amore per Cristo, di lasciarsi di nuovo “rapire” dalla sua bellezza. Quello che il risorto scrive alla Chiesa di Efeso, sono convinto che è quello che scriverebbe oggi a tanti di noi consacrati, impegnati in mille occupazioni:
"Io conosco le tue opere, la tua fatica, la tua costanza […]. So che hai costanza, hai sopportato molte cose per amor del mio nome e non ti sei stancato. Ma ho una cosa da rimproverarti: hai abbandonato il tuo primo amore” (Ap 2, 2-4).
È questo un compito primario, non solo per le anime consacrate, ma per tutta la Chiesa ed è questo il “messaggio” di Chiara alla Chiesa di oggi che vorrei mettere in luce con questa mia riflessione. Una vita cristiana e, a maggior ragione, una vita consacrata senza un amore appassionato per l’Uomo Dio, è come un matrimonio senza amore. O la vita consacrata è amore per Cristo o non è niente. La stessa verginità e castità per il regno o è espressione di amore esclusivo per Cristo o è solo rinuncia penosa, qualcosa di negativo che non riempie la vita. Chiara ha espresso in modo insuperabile questa verità vedendo nel titolo di “spose di Cristo” l’identità profonda delle sue figlie.
Ma dove attingere questo amore ardente per Cristo, come risvegliarlo, se sopito? Con un atto della nostra volontà? Sappiamo bene che l’amore non nasce e non rinasce perché uno se lo impone. C’è una costante in quasi tutte le apparizioni del Risorto dopo la Pasqua che può aiutarci a trovare la risposta.
All’inizio Gesù si mostra a qualcuno, conversa con lui o con lei, ma nulla cambia; la persona continua a essere triste, a piangere o a lamentarsi di non aver pescato nulla per tutta la notte. Ma ecco che improvvisamente un velo si squarcia e lo riconoscono. Succede così alla Maddalena il mattino di Pasqua nel momento in cui Gesù pronuncia il suo nome, ai discepoli di Emmaus allo spezzare del pane, agli apostoli sulla riva del lago nel momento in cui Giovanni grida: “È il Signore!”. Da quel momento il mondo non è più lo stesso, scompare ogni tristezza e ogni paura. Maria corre a dirlo agli apostoli, i discepoli di Emmaus dimenticano che è già sera e ritornano a Gerusalemme per raccontare l’accaduto agli altri; Pietro si getta in acqua per giungere prima alla riva. Assistiamo all’evangelizzazione nel suo “stato nascente”.
Questo fatto non è terminato con la Pasqua, si rinnova sempre di nuovo nella storia, anche oggi. La maggioranza dei cristiani, comprese le anime consacrate, è battezzata, ha la fede, si può dire quindi che vive in compagnia di Gesù, ma la loro vita non è “sconvolta” da questo fatto, si vive la vita cristiana in modo “spento”, senza trasalimenti, senza gioia e senza slancio per evangelizzare. Siamo, insomma, come quei discepoli prima di riconoscere il Signore.
Chi può provocare anche oggi quella scintilla che accende la grande luce? Chi la accese nella Maddalena e nel cuore di Giovanni? Lo Spirito Santo! Con la risurrezione, Gesù è entrato in una dimensione nuova, non più della carne, ma dello Spirito: “Messo a morte nella carne, egli vive nello Spirito” (1 Pt 3,18). Per comunicare con lui, il tramite ormai è lo Spirito Santo. Ecco perché il Risorto dice alla Maddalena: “Non mi toccare!”, Noli me tangere. Maria pensava di potersi rapportare a lui nel modo di prima, toccandolo fisicamente. Gesù vuole farle capire che adesso bisogna rapportarsi a lui in un altro modo, con un altro senso del tatto, quello spirituale della fede: “Tocca Cristo, chi crede in Cristo”, dice sant’Agostino (“Tangit Christum qui credit in Christum”).
C’è una parola di Paolo VI che non mi stanco mai di citare. Dice:
“Ci siamo chiesti più volte ...quale bisogno avvertiamo, primo ed ultimo, per questa nostra Chiesa benedetta e diletta. Lo dobbiamo dire quasi trepidanti e preganti, perché è il suo mistero e la sua vita, voi lo sapete: lo Spirito, lo Spirito Santo, animatore e santificatore della Chiesa, suo respiro divino, il vento delle sue vele, suo principio unificatore, sua sorgente interiore di luce e di forza, suo sostegno e suo consolatore, sua sorgente di carismi e di canti, sua pace e suo gaudio, suo pegno e preludio di vita beata ed eterna. La Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo...Ha bisogno, la Chiesa, di riacquistare l’ansia, il gusto la certezza della sua verità...E poi ha bisogno, la Chiesa, di sentire rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda dell’amore, di quell’amore che si chiama carità, e che appunto è diffusa nei nostri cuori proprio dallo Spirito Santo che a noi è stato dato” .
Quello che il papa dice della Chiesa in genere si applica in modo ancora più forte alla vita consacrata. Anch’essa ha bisogno di una perenne Pentecoste. Sarebbe da piangere se proprio le anime consacrate, i religiosi e le religiose, sia di vita attiva che di vita contemplativa, rimanessero fuori della “novella Pentecoste” chiesta da Giovanni XXIII e che centinaia di milioni di credenti stanno sperimentando nella Chiesa.
Vediamo cosa ci dice il Nuovo Testamento intorno allo Spirito Santo e la conoscenza di Cristo. Prima che da affermazioni esplicite e riflesse, questo ruolo dello Spirito appare dai fatti. La venuta dello Spirito Santo a Pentecoste si traduce in una improvvisa illuminazione di tutto l’operato e la persona di Cristo. Pietro proclama:
“Uomini d'Israele, ascoltate queste parole! Gesù il Nazareno, uomo che Dio ha accreditato fra di voi mediante opere potenti, prodigi e segni che Dio fece per mezzo di lui, tra di voi, come voi stessi ben sapete, quest'uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste; ma Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto”.
E l’apostolo conclude con quella specie di definizione “urbi et orbi” della signoria di Cristo: “Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (atti 2, 22-24.36). Lo Spirito Santo ha dato agli apostoli una conoscenza e un amore nuovi per Cristo, sconosciuti prima. Ha effuso, come dice Paolo, l’amore di Dio nei loro cuori (cf. Rom 5,5).
Lo stesso Apostolo afferma che nessuno può dire che Gesù è il Signore, se non grazie a una interiore illuminazione dello Spirito Santo (cf. 1 Cor 12, 3). Solo se saranno “rafforzati dallo Spirito”, i credenti saranno in grado di “comprendere l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3, 16-19).
Nel vangelo di Giovanni, è Gesù stesso che annuncia quest’opera del Paraclito nei suoi confronti. Egli prenderà del suo e lo annuncerà ai discepoli; ricorderà loro tutto ciò che egli ha detto; li condurrà alla verità tutt’intera sul suo rapporto con il Padre; gli renderà testimonianza. Proprio questo anzi sarà, d’ora in poi, il criterio per riconoscere se si tratta del vero Spirito di Dio e non di un altro spirito: se spinge a riconoscere Gesù venuto nella carne (cf. 1 Gv 4, 2-3). Lo Spirito Santo è il grande, vero “amico dello Sposo” che parla di lui al cuore della sposa di Cristo, che lo pone “come sigillo sul suo braccio” e lo imprime sul suo cuore.
3. Francesco e Chiara, un uomo e una donna
Prima di terminare vorrei accennare a un altro punto in cui la vicenda di Chiara contiene un messaggio per il mondo d’oggi. Si tratta del suo rapporto con Francesco. Nel racconto della creazione leggiamo queste parole: “Poi il Signore Dio disse: Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che sia simile a lui” (Gen 1, 18). E fu così che fu creata Eva. Queste parole Dio le ha ripetute varie volte nel corso della storia. Un giorno disse: “Non è bene che Francesco sia solo; gli voglio fare un aiuto simile a lui” e fu così che fu “creata” Chiara. Chiara è stata veramente per Francesco un aiuto “simile” a lui, della stessa natura, della stessa tempra. Un’anima “gemella” nel senso più vero. La stessa cosa si deve dire di Francesco in rapporto a Chiara.
È un luogo comune parlare dell’amicizia tra Chiara e Francesco come di un amore umano sublimato. “Il rapporto fra santa Chiara e san Francesco –scrive il sociologo Francesco Alberoni– ha tutti i caratteri di un innamoramento trasferito (o sublimato) nella divinità”. Come ogni uomo, anche se santo, Francesco può aver sperimentato il richiamo della donna e del sesso. Le fonti riferiscono che per vincere una tentazione del genere una volta il santo si rotolò d’inverno nella neve. Ma non si trattava di Chiara! Quando tra un uomo e una donna sono uniti in Dio, questo vincolo, se è autentico, esclude ogni attrazione di tipo erotico, senza neppure che ci sia lotta. È come messo al riparo. È un altro tipo di rapporto. Tra Chiara e Francesco c’era certamente un fortissimo legame anche umano, ma di tipo paterno e fraterno, non sponsale. Francesco chiamava Chiara la sua “pianticella” e Chiara chiamava Francesco “il nostro Padre”.
Chi ha meglio capito la natura del rapporto tra Francesco e Chiara è stato l’iniziatore degli studi storici su Francesco, il pastore protestante Paul Sabatier. Egli scrive:
“Qui, più che mai, occorre rinunciare ai giudizi dell’uomo comune, che non è in grado di capire un tipo di comunione tra uomo e donna in cui non abbia parte l’istinto sessuale. La comunione dei sessi è qualcosa di divino in quanto prefigura simbolicamente l’unione delle anime. L’amore fisico è solo un’effimera scintilla, destinata ad accendere nei cuori la fiamma di un amore durevole; è il vestibolo del tempio, non ancora il santo dei santi…Esistono però anime così poco terrene e tanto pure che di colpo entrano nel santo dei santi e una volta dentro, il pensiero di un’altra unione non sarebbe solo una caduta, ma cosa impossibile. Tale fu l’amore tra san Francesco e santa Chiara. Queste però sono eccezioni, e la loro purezza ha qualcosa di misterioso; è talmente grande, che, proponendola agli uomini, si corre il rischio di parlare loro una lingua incomprensibile, o anche peggio”.
L’intesa straordinariamente profonda tra Francesco e Chiara che caratterizza l’epopea francescana non viene “dalla carne e dal sangue”. Antoine de Saint-Exupéry ha scritto che “amarsi non vuol dire guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Chiara e Francesco non hanno davvero passato la vita a guardarsi l’un l’altro, a stare bene insieme. Si sono scambiati tra loro pochissime parole, quasi solo quelle riferite nelle fonti. C’era una stupenda riservatezza tra loro, tanto che il santo veniva a volte rimproverato amabilmente dai suoi frati di essere troppo duro con Chiara. Fu per la loro insistenza che, secondo i Fioretti, egli accettò di consumare con lei e le sorelle il famoso pasto finito in un incendio spirituale, visibile a chilometri di distanza!
Solo alle fine della vita, vediamo questo rigore nei rapporti attenuarsi e Francesco cercare sempre più spesso conforto e conferma presso la sua “Pianticella”. È a San Damiano che si rifugia prossimo alla morte, divorato da malattie, ed è vicino a lei che intona il cantico di Frate Sole e di sorella Luna, con quell’elogio di “Sora Acqua”, “utile et humile et pretiosa et casta”, che sembra scritto pensando a Chiara.
Chiara che, nell’affresco di Giotto, si china a baciare il corpo esamine di Francesco nel suo viaggio verso la sepoltura, fa pensare a Maria che sul Calvario, dopo il “consummatum est”, può finalmente riavere tutto per sé il suo Gesù. Prima di allora, anche tra Maria e il Figlio, quanto poco spazio dato alla carne e al sangue! Una volta, durante la vita pubblica, vediamo Maria costretta a ricorrere all’intercessione altrui per poter parlare un momento al Figlio: “Fuori c’è tua madre che ti cerca” (cfr. Mc. 3,32).
L’amicizia di Francesco e Chiara ha una caratteristica: non è esclusiva, non esclude gli altri, i fratelli di Francesco e le sorelle di Chiara, ma trabocca su di essi. Francesco è fratello e padre di tutte le suore; Chiara è la sorella e la madre di tutti i frati. Quando l’amicizia tra l’ uomo e la donna è di questa qualità –non possessiva, ma condivisa- essa diviene reminiscenza della creazione, ritorno all’innocenza originale dei rapporti, “ritorno al paradiso”, secondo l’ideale ascetico dei Padri del deserto. Attraverso la rinuncia e la croce (la croce di Cristo!) l’uomo rientra nel paradiso perduto.
Invece di guardarsi l’un l’altro, Chiara e Francesco hanno guardato nella stessa direzione. E si sa qual è stata per loro questa “direzione”: Gesù, povero, umile, crocifisso. Chiara e Francesco erano come i due occhi che guardano sempre nella stessa direzione.
Due occhi non sono solo due occhi, cioè un occhio ripetuto due volte; nessuno dei due è solo un occhio di riserva o di ricambio. Due occhi che fissano l’oggetto da angolature diverse danno profondità, rilievo all’oggetto, permettono di “avvolgerlo” con lo sguardo. Così è stato per Chiara e Francesco. Essi hanno guardato lo stesso Dio, lo stesso Signore Gesù, lo stesso Crocifisso, la stessa Eucaristia, ma da “angolature”, con doni e sensibilità propri: quelli maschili e quelli femminili. Insieme hanno colto di più di quanto avrebbero potuto fare due Franceschi o due Chiare.
Qui sta il mistero di quella complementarietà che la Bibbia mette in rilievo quando dice: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen 1,27). Insieme formano l’immagine perfetta del Dio biblico che è unità e diversità, uno e trino, unità d’amore e non di numero. Così Francesco e Chiara sono immagine del Cristo totale che è lo sposo e la sposa uniti a formare “un grande mistero” (Ef. 5, 32).
Si sa quanto il rapporto tra l’uomo e la donna sia oggi scaduto, ridotto quasi solamente, almeno nello spettacolo e nella pubblicità, a rapporto di corpi senza anima. Francesco e Chiara, come altre luminose “coppie” nella storia della santità cristiana (Benedetto e Scolastica, Francesco di Sales e Giovanna di Chantal…) costituiscono un richiamo a qualcosa di diverso, dove la natura è coronata, non distrutta, dalla grazia.
Si potrebbe documentare con moltissimi esempi che Chiara e Francesco guardavano davvero nella stessa direzione. A me piace sottolineare uno di essi: il comune amore dei due per l’Eucaristia. L’Eucaristia è la cosa di cui Francesco parla più spesso nei suoi scritti, più ancora che della povertà. Per lui l’Eucaristia non è solo un mistero, un sacramento: è una persona viva: è Cristo completamente rimesso nelle mani degli uomini, fragile e indifeso, come era a Betlemme. Di qui il suo intenerirsi per tutto quello che riguarda il Sacramento dell’altare, la sua preoccupazione per il decoro e la pulizia delle chiese e dei vasi sacri.
Quanto a Chiara, l’ostensorio eucaristico è il suo segno iconografico. Ella ha udito una voce “come di bimbo” venire dal ciborio e assicurarla: “Io vi custodirò sempre!”. Questo è un aspetto essenziale della vita claustrale: tenere il mondo in ginocchio davanti al Santissimo, e il Santissimo davanti al mondo. “Issarlo”, per così dire e brandirlo sulle mura della città. Assisi fu salvata dai Saraceni non dai suoi soldati, ma per Chiara che si fece loro incontro con l’ostensorio in mano.
Concludo con una nota un po’ personale. Nella Quaresima dell’anno scorso ho svolto una serie di meditazioni alla Casa Pontificia, a commento della prima enciclica del papa “Deus caritas est”, “Dio è amore”. Nella prima di esse ho parlato dell’amore per Cristo, che deve riflettere le due dimensioni di ogni vero amore, l’agape e l’eros, il sacrificio e slancio ardente del cuore. Ho concluso con delle parole un po’ audaci che oso ripetere oggi qui davanti a voi.
“Io ho provato a immaginare cosa direbbe Gesù risorto, se, come faceva nella vita terrena quando entrava di sabato in una sinagoga, adesso venisse a sedersi qui al posto mio e ci spiegasse lui stesso qual è l’amore che egli desidera da noi. Voglio condividere con voi, con semplicità, quello che penso ci direbbe; ci servirà per fare il nostro esame di coscienza sull’amore:
- L’amore ardente: E' mettere me sempre al primo posto.
- E' cercare di piacermi in ogni momento.
- E' confrontare i tuoi desideri con il mio desiderio.
- E' vivere davanti a me come amico, confidente, sposo, ed esserne felice.
- E' essere inquieto se pensi di stare un po' lontano da me.
- E' essere pieno di felicità quando sono con te.
- E' essere disposto a grandi sacrifici pur di non perdermi.
- E' preferire di vivere povero e sconosciuto con me, piuttosto che ricco e famoso senza di me.
- E' parlarmi come all'amico più caro in ogni momento.
- E' affidarti a me guardando al tuo futuro.
- E' desiderare perderti in me come meta della tua esistenza.
Se sembra anche voi, come sembra a me, di essere ancora ben lontani da questo traguardo, non ci scoraggiamo. Abbiamo scoperto di avere uno che può aiutarci a raggiungerlo se glielo chiediamo. Ripetiamo con fede allo Spirito Santo: Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium et tui amoris in eis ignem accende: Vieni, Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore. Te lo chiediamo anche per l’intercessione di Santa Chiara di cui celebriamo l’ottavo centenario delle nozze con Cristo.